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L’editoriale del Direttore
Il business dei rifiuti tossici rappresentava per il clan camorristico una fonte di guadagno incredibile, con profitti che oscillavano tra i 7 ei 10 milioni di lire per ettaro, generando una rendita mensile di circa 600-700 milioni di lire. Un’autentica “industria” della camorra che, oltre a garantire ricchezze alle famiglie coinvolte, contribuiva a mantenere in piedi un sistema di protezione per gli affiliati, i latitanti e le spese legali, che ammontavano a ben 2,5 miliardi al mese. Tuttavia, questo flusso di denaro doveva rimanere avvolto nel segreto, come se ogni aspetto di questa operazione dovesse rimanere occulto. Perché?
Il 13 ottobre del 1992, Carmine Schiavone, camorrista pentito, si presenta davanti alla Commissione Parlamentare, presieduta dall’onorevole Massimo Scalia. Inizia a raccontare una storia che affonda le radici nel 1988 e che sembra non avere una conclusione definitiva. Le domande dei commissari sono incisive; si chiedono fino a dove si estendesse il controllo della camorra nel business dei rifiuti, se solo fino a Latina o anche oltre. “Arrivammo fino alla provincia di Frosinone, Cassino”, afferma Schiavone, insinuando l’esistenza di rifiuti tossici sepolti nel sottosuolo lungo il tratto autostradale.
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È sconcertante pensare che le autorità, le procure, non abbiano mai indagato a fondo su questa materia così delicata e lo stesso Schiavone a ribadirlo in ogni occasione. È mai possibile che i siti di smaltimento di materiali pericolosi non siano stati identificati? A distanza di anni, le stesse famiglie che gestivano affari illeciti all’epoca continuano a operare nella provincia di Latina, legati ai clan dei Casalesi. Questa situazione solleva interrogativi inquietanti: come è stato possibile che tutto ciò accadesse senza destare l’attenzione necessaria?
Schiavone, in un’intervista a “Il Tempo”, afferma: «Ho fatto 20 anni di scuola, 30 anni di alta mafia… I magistrati avrebbero potuto fare piazza pulita ma andarono troppo lenti». La sua denuncia mette in luce un inquietante intreccio di complicità tra criminalità e istituzioni. Il dischetto contenente dati cruciali, archiviatovi dalla Dia ma mai rivelato, rappresenta un simbolo di come informazioni vitali siano state volutamente oscurate.
Quando gli si chiede chi possieda tali prove, Schiavone risponde: «Il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Quel disco non lo tireranno mai fuori». Queste parole rivelano una realtà scomoda: i politici si servono della criminalità, scaricando le responsabilità sui clan nei momenti opportuni, mentre la vera radice del problema rimane nascosta.
La frase di Schiavone, “la politica si serve della criminalità”, risuona come un campanello d’allarme. Non scrivere o parlare di politica significa rinunciare a porre l’attenzione su un problema che stravolge la vita delle persone. La paura non deve vincere; è essenziale alzare il livello di attenzione e denunciare ciò che avviene nell’ombra. La battaglia contro la camorra e il suo intricato business dei rifiuti richiede determinazione e coraggio, perché solo esponendo la verità si potrà sperare in un futuro libero da queste ombre. Sappiamo benissimo che è difficile esporsi significa andare incontro a diversi problemucci.